CHI SONO GLI AUTORI

Valerio Visintin è un critico gastronomico, amato e odiato fermamente (di calli ne pesta molti), sentimenti raramente attribuibili a un volto perché è ignoto ai più, gira in ogni stagione e con qualsiasi temperatura vestito di nero con tanto di passamontagna e cappellone.
A fine maggio sono andata alla presentazione del suo ultimo libro “Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi” (Terre di Mezzo Editore, 192 pag. € 12,00) dove – come gli suole – con grande ironia pesta svariate code di settore tra chef, giornalisti e “fuffblogger”. Lo stile è quello del suo blog “Mangiare a Milano” sul Corriere.it dove posta ogni martedì.

Se cercate Valerio su FB lo trovate qui.

Leonardo Lucarelli è/era (si vedrà) un cuoco che ha impugnato la penna per raccontare “senza peli sulla lingua” cosa succede/gli è successo dietro le quinte del mondo della ristorazione.
L’ho conosciuto a luglio al Porto Cervo Food&Wine Festival, dove ha presentato il suo libro “Carne trita – l’educazione di un cuoco” (Garzanti Editore, 290 pag. € 16,40).
Leggendo Carne Trita vi ritroverete dall’altro lato della barricata – in cucina, ma anche in sala – prima, durante e dopo il vostro ingresso al ristorante e vi guarderete con gli occhi di Leonardo. Probabilmente dopo aver letto il suo libro non entrerete più in un locale come facevate prima, il velo è strappato.

Se cercate Leonardo su FB lo trovate qui.

 

COME E’ NATO QUESTO POST

Due libri, “Carne trita – l’educazione di un cuoco” e “Cuochi sull’orlo di una crisi di nervi” usciti a pochi mesi di distanza, sul mondo del food visto con occhi disincantati da due diverse angolazioni, da una parte il cuoco dall’altra il critico gastronomico. Far incontrare Valerio e Leonardo attraverso i loro libri mi è sembrato naturale, e loro hanno accettato subito la mia proposta di intervistarsi vicendevolmente dopo “essersi letti”.
Dovevano farsi tre domande, ma prima a Leonardo ne son scappate 5 poi Visintin vista l’opportunità di aggiungerne qualcuna è arrivato a 6 e lì ci siamo fermati.
Eccole qui sotto tutte e 12 in versione integrale, come i due autori le posero – e risposero. Naturalmente per correttezza hanno ricevuto le proprie domande contemporaneamente, ed è attraverso questo post che leggono le rispettive risposte.
Enjoy.

Valerio M. Visintin al termine della presentazione del suo nuovo libro "Cuochi sull'orlo di una crisi di nervi" Terre di Mezzo Ed. | ©foto Sandra Longinotti

LE 6 DOMANDE DI LEONARDO LUCARELLI A VALERIO VISINTIN

1 – Dal tuo libro emerge chiaramente (non soltanto rispetto al pensiero botturiano) una critica all’utilizzo improprio delle parole, abusate e fuori contesto. Capita di entrare da McDonald’s e leggere “lievitazione naturale” e se associ il concetto (che di per sé non vuol dire nulla) al pane di plastica del fast food non sai se ridacchiare o imbestialirti. Le parole veicolano pensieri, se confondiamo le parole, se cultura diventa una parola grattugiata che “va bene su tutto”, cosa resta dei concetti? E da dove cominciamo per riappropriarci di una “realtà”, anche a proposito di cuochi e ristoranti, che abbia senso e che non sia solo narrazione?

Quella che sottolinei, caro il mio Lucarelli, è una patologia inarrestabile. La sottomissione dei ragionamenti agli slogan; l’uso, improprio ossessivo e specioso, di alcuna parole evocative, come “amore”, “passione”, “cultura”, “innovazione”; la semplificazione brutale e capziosa del lessico, a simulacro di una poetica veracità: questi e altri vizi sono le armi di un arsenale che rifornisce ogni settore della vita sociale.  Non si può ragionevolmente ritenere che il circo del food ne sia immune.
Possiamo, tuttavia, sognare che si vadano smussando alcuni aspetti critici che appartengono specificamente al mondo delle abbuffate. Il nostro miglior alleato è la noia. Ne avremo piene le scatole, un bel giorno, di tutta questa fuffa che ci è cresciuta addosso.

2 – La definizione fuffblogger è divertente e oltremodo calzante. Ma non salvi proprio nessun food blogger? Non temi che, almeno in arte, si potrebbe pensare che quest’acredine nei loro confronti sia dovuta anche al fatto che stanno scalzando la credibilità e il ruolo dei giornalisti, appiattendo tutto? E non credi che questo (vero) mercimonio sia iniziato in realtà parecchio prima del loro avvento, e l’abbiano iniziato proprio i giornalisti e i critici culinari?

Credibilità? Fuffblogger? Facciamo un passo indietro. Salvo eccezioni, per i giornalisti del mio settore, etica e deontologia sono concetti antiquati, perduti nella notte dei tempi. Se per caso gliene parli, ti osservano guardinghi, come se intuissero uno scherzo da burlone. O come se, impazzito, gli stessi consigliando di tornare alla macchina da scrivere.
La credibilità, pertanto, non è una conquista da maturare sul campo giorno dopo giorno, con fatica e rigore. È un’autocertificazione collettiva, che spetta di diritto a chiunque si iscriva al club, rinunciando allegramente alle opinioni personali per il bene supremo della categoria.
Ho scritto molte volte dello sconforto e dell’indignazione (non parlerei di acredine) che suscita in me questa larghissima tendenza. E non provo sentimenti diversi nei confronti dei molti blogger che si sono allineati al malcostume dei miei colleghi.
Tanto più oggi, in un territorio espressivo senza confini, dove i ruoli si intrecciano e si sovrappongono.  Non sappiamo più se chi scrive è un giornalista oppure no. E francamente è un dubbio che ritengo anacronistico.
L’etichetta di “fuffblogger”, per me, si adatta a tutti i cialtroni che scrivono per interesse personale o di casta, a prescindere dalle tessere che hanno o non hanno nel portafogli.

3 – Questa domanda è la prosecuzione della precedente. Riguardo alla critica gastronomica dici “Ma è un’insostenibile insicurezza a dar fiato alle trombe. Si affermano princìpi personali come fossero vangeli. Si legittimano privilegi miserabili, autocertificando il proprio rigore morale (…)” Ti chiedo: non credi che sia una cosa diffusa, non solo nell’ambiente della critica gastronomica? Hai presente quello che viene chiamato effetto Dunning-Kruger, secondo il quale più uno non sa niente di un argomento, non ha vere capacità, più crede di saperla lunga? Poi ci sono “i social media che danno diritto di parola a legioni di imbecilli”, come diceva Eco.

Certo. Come ho accennato qualche riga fa, si tratta di un virus sociale al quale non sfugge nessun ambito commerciale e comunicativo.
Nel caso della ristorazione, però, l’espansione è stata più rapida e pervasiva, per ragioni che attengono alla matrice universale del tema in oggetto e alla sua relativa verginità. Il mondo del food è preso d’assalto, insomma, perché tutti mangiano; perché nel settore c’è ancora danaro da spremere; perché è in vertiginosa crescita di popolarità; è quello che crea maggiori cortigianerie dato che è alla portata di tutti; è zavorrato da un insolito carico di ignoranza; è aperto più di altri all’improvvisazione; è esposto più di altri alla mistificazione; è puerilmente snob; non è ancora corazzato per respingere le avances dei mercanti e dei furbetti; è ben servito dai mass media; è, per implicita natura, il paradiso degli scrocconi; è un illusorio accesso al mondo del lusso; è, nel suo piccolo, un superconcentrato di guasti sociali.

4 – Bottura è il miglior chef del mondo. Tu racconti la faccenda del White Guide Global Gastronomy Award assegnato allo chef modenese nel marzo 2014, la faccenda effettivamente suonava sommessamente ridicola, ma ti chiedo: suvvia, credi sia colpa di Bottura? In generale se gli chef hanno questo (immeritato) spazio mediatico, è colpa loro? O colpa della platea che si ciba di eroi e di un sistema di informazione (ops) che ha bisogno di continuare a sfornarne per sopravvivere?

Non vorrei sembrare blasfemo, ma è bene ricordare a chi legge che Massimo Bottura non è il miglior chef del mondo. Titolo che, d’altra parte, non sarebbe ragionevole assegnare ad alcuno, data la volatilità e l’infinita varietà culturale  e antropologica che  sottende alla materia gastronomica. È vero, invece, che al ristorante del signor Bottura, Osteria Francescana di Modena, è stato assegnato il primo posto in una classifica intitolata World’s 50 Best Restaurants. Tale classifica è retta da uno sponsor, la Nestlé, che probabilmente non incarna i preziosi valori dell’alta cucina. Ed è, per di più, edificata attraverso meccanismi elettivi che fecero storcere il naso persino a un uomo scafato come Enzo Vizzari, piccolo Cesare della guida dell’Espresso.
Carta stampata e web hanno trasformato questo riconoscimento,  prestigioso  ma imperfetto (eufemismo), in un trionfo planetario perché gli eccessi si vendono meglio della cruda realtà. Così come avevano esaltato il titolo assegnato al cigno di Modena dalla semisconosciuta White Guide Global Gastronomy Award.
In tale contesto, la “colpa” di Bottura e dei suoi colleghi si chiama opportunismo."Cuochi sull'orlo di una crisi di nervi" di Valerio M. Visintin, Terre di Mezzo Ed. | ©foto Sandra Longinotti

5 – Mi dici qualcosa di più circa “l’espansione virale della malavita organizzata nei gangli della ristorazione“? Nel mio accenno la cosa raccontando un episodio, ma non entro troppo nel merito. L’Istat parla di un 56,8% di nero nel settore alberghiero/ristorativo, con un sommerso così spropositato (più di quello relativo a colf e badanti, “solo” del 52,9%) è quasi ovvio che sia una pacchia per chi vuole riciclare denaro. Perché se ne parla così poco secondo te, pudore? Perché pure io e te ne abbiamo parlato così poco nei nostri libri?

Non si creda che la malavita organizzata sia un episodio circoscritto a certe pizzerie dai nomi fokloristici. È, al contrario, una metastasi della ristorazione italiana, che certamente si estende anche a insegne borghesi, sino ai templi della cosiddetta “alta cucina”. Poi, c’è il malaffare disorganizzato: gli stipendi in nero, gli straordinari non pagati, gli scontrini non battuti, i finanziamenti occulti per riciclare fondi grigi di professionisti e imprenditori, le truffe alimentari, le infrazioni sanitarie, i fallimenti a catena.
Ecco alcune buone ragioni per mettere la sordina alla grancassa degli chef e parlare di temi più concreti e cogenti. Ma converrai che sarebbe disdicevole. È un tale peccato rovinare il giocattolo con questi sospetti impudichi. Certi panni non si lavano nemmeno in famiglia.
Personalmente, faccio quel che posso per smuovere l’omertà. Mi rendo conto che non è granché. Ma ne ho scritto fuori e dentro il libro. E ne parlo pubblicamente, appena me ne offrono l’occasione. Sarebbe bello che qualcun altro si esprimesse in merito. Tu, Leonardo, hai da fare?

6 – Un’ultima domanda, semplice: criticare è ovviamente più divertente che elogiare o fare dichiarazioni d’amore. Eppure la critica gastronomica è la tua vita. Mi dici qualcosa di buono, emozionante, divertente. Insomma, cos’è che ti trattiene (volentieri, credo) in questo mondo?

No. Non mi trattengo volentieri in questo mondo, caro Leonardo. Mi ci sento sempre più scomodo. Sempre più estraneo. Ma rinuncio all’esilio perché amo il mio lavoro. Che non è fatto soltanto di delusioni e stroncature, anche se poi si ricordano gli schiaffi più che le carezze. Resto al mio posto per il privilegio di poter dire la mia in libertà, scherzandoci sopra o perdendo le staffe. Resto qui per la stima che debbo a quella moltitudine di uomini e di donne che lavorano nella ristorazione con onore e con passione, all’ombra dei riflettori altrui, lontano dalle baracconate dei congressi golosi. Resto per i lettori, finché ne avrò. Resto al mio posto, legato alla sedia come Vittorio Alfieri, per assicurare a chi mi cerca “che comunque la mia parte ve la posso garantire”, per dirla alla Guccini.

Bruno Gambacorta presenta il libro di Leonardo Lucarelli "Carne Trita" (Garzanti Ed.) al Food&Wine Porto Cervo Festival 2016 | ©foto Sandra Longinotti

LE 6 DOMANDE DI VALERIO VISINTIN A LEONARDO LUCARELLI

1 – Nonnismo, compensi infimi, contratti fantasma, quattrini sottobanco, droga, malavita: il tuo libro dipinge una ristorazione distante anni luce dalla retorica curiale degli chef da copertina, a cominciare da Don Bottura, secondo i quali le cucine sono un’anticamera di paradiso; un idillio d’amore e di poesia. Qual è la verità?

Nelle cucine degli chef da copertina ci sono passato velocemente e solo da comparsa. Probabilmente l’ho fatto troppo tardi, quando non mi bastava l’idea di arricchire il curriculum per farmi sorridere, ma era necessario accostarla a uno stipendio decente. Uno dei motivi per cui non sono rimasto lì dentro. L’altro è che la retorica curiale va bene per le copertine, quando si sta in cucina l’antifona (per fortuna, in parte, aggiungo) è diversa, almeno per quanto riguarda droga, contratti fantasma e nonnismo. Ma non sono qui a infangare un lavoro che mi piace, mi piace per tutte le sue componenti, anche (e soprattutto) per quella dissoluta libertà che si respira ai fornelli. Odio però l’accanimento sul debole, soprattutto lo sfruttamento degli immigrati, che è parte integrante di tutta la catena alimentare, dalle coltivazioni di pomodori alla plonge delle migliori cucine. E poi non mi piacciono le bugie palesi. Qual è la verità? Non conosco la verità, conosco un sacco di storie, ti garantisco però che se è vero che serve un istinto d’amore per passare così tanto tempo in piedi a relazionarsi con dei pazzi armati di coltello, per la gioia di produrre del buon cibo, beh, non è quel tipo di amore che potrei definire anticamera del paradiso. Per me l’essere cuoco è (ormai) un dato dell’esistenza e anche un punto di vista sul mondo. La cucina è un ambiente complesso e in una certa accezione “totale”. Un mondo di cultura materiale, di modelli etici, di incontro e scontro di saperi e di pratiche, di sfogo delle peggiori pulsioni, a suo modo un sistema in equilibrio tra regole ferree e entropie personali. C’entra poco con la poesia e starei anche attento ad abusare della parola “cultura”. Se ho continuato a fare il cuoco dopo essere entrato per caso in cucina l’ho fatto anche per spirito di vendetta (una sorta di “non mi avrete mai come volete voi”). Siamo operai, lavoriamo con contratti da operai, la metà dei nostri stipendi la riceviamo in nero e buttiamo le pentole sporche nel lavandino di uno straniero che prende 3 euro l’ora quando gli va bene. Con buona pace di Don Bottura e di mastro Cracco.

2 – Nel racconto, mancano i clienti. O figurano di sfuggita come delle comparse. Utili, ma marginali e manovrabili. Pare che il cuoco cucini per se stesso, in una sorta di solenne egocentrismo.

In effetti è così. Senza clienti il nostro lavoro non esiste, eppure viviamo i clienti come nemici. È una battaglia strana in cui la sconfitta è marcata dall’insoddisfazione del nemico e la nostra vittoria è la sua mancia e la promessa di tornare a farci sudare sangue. Eppure, in fondo, credo che ogni cuoco cucini per sé. La cucina mette in relazione con il cibo, ma soprattutto con gli altri, però questi “altri” non sono i clienti quanto invece quelli con cui condividiamo il nostro spazio e il nostro tempo. In cucina ci passa la vita, l’intensità obbligata di relazioni umane ravvicinate, che mettono alla prova subito, che formano il carattere, fanno confrontare. È il nostro palcoscenico privato in cui mandiamo in scena stili, preferenze, ma soprattutto tentativi di costruire spazi propri. E poi c’è il mestiere, la soddisfazione di migliorare, di conoscere tecniche, materie prime e strumenti. Questa crescita non è dedicata ai clienti, i clienti ci servono per vivere, sono il nostro danno collaterale.

3 – Mancano anche quelli come me: i critici gastronomici. Se si eccettua il sogno iconico della stella Michelin. Giornalisti e fuffblogger non hanno un ruolo nel mondo degli chef?

Ho 39 anni, compiuti l’altro ieri. Ti sembrerà strano, ma sono un cuoco “vecchio stampo”, nel senso che sono cresciuto professionalmente prima di Trip Advisor e dell’attenzione bulimica e chiacchierona per il cibo che viviamo adesso. E sono un cuoco qualsiasi, a parte qualche esperienza di rilievo qua e là, mediamente lavoro in posti per i quali non credo che giornalisti (veri) come te trovino interesse. Il sogno iconico della Stella Michelin l’ho sempre considerato al di fuori della mia portata, soprattutto economica. La bella recensione fa piacere, mi è capitato di averne alcune quando lavoravo a Roma in un locale jazz molto conosciuto, ma al di là della gioia egoica momentanea, quello che contava era che avrebbe portato delle persone in sala a cui far pagare il mio stipendio e quello dei miei collaboratori, almeno per un altro po’. In fondo, comunque, ero convinto che ci fosse lo zampino di qualche comunicato stampa e un paio di cene offerte. I fuffblogger non esistono. Sono incapaci prezzolati e lo sappiamo tutti. Hanno peso solo perché il denaro si muove con i flussi degli ignoranti. In realtà credo che (purtroppo) abbia più peso Trip Advisor di qualsiasi buona recensione. Trip Advisor è l’esempio più concreto che mi viene in mente rispetto al tanto citato discorso di Eco riguardante le legioni di imbecilli a cui dà voce il web. Ecco. Quelle voci, porca miseria, contano.

"Carne Trita" di Leonardo Lucarelli, Garzanti Ed. | ©foto Sandra Longinotti

4 – Una pastasciutta di un ristorante stellato vale 35-40 euro? Tu scrivi “è un insulto al buon senso”. Costano troppo i ristoranti d’alto bordo?

Nei ristoranti d’alto bordo paghi soprattutto l’esperienza, e solo in parte il cibo. Paghi il servizio, la quantità dei camerieri, la porcellana, i cristalli e l’argenteria. Tutta quella roba costa. Ci sono dei cuochi a cui riconosco un genio indiscutibile, offrono qualcosa di unico e narrante, sono visionari e grandi artigiani. Se l’amatriciana che costa 40 euro è la stessa amatriciana che potresti farti a casa tua con un minimo di attenzione, magari aggiungendo del guanciale croccante dopo averla impiattata, beh, ti stanno prendendo per il naso. Se tu paghi, fanno bene a farlo.

5 – Guardando la pubblicità di Cracco con l’uovo di quaglia sulla patatina, scrivi: “certo che così ci si sputtana. […] siamo un esercito di persone che vi prendono per il culo da un sacco di tempo, perché tanto voi non ne avete idea, non conoscete anima e melodia”. Gli chef stellati ci prendono per i fondelli?

Non credo sia colpa degli chef stellati. Se devo trovare un responsabile, beh, ho la forte tentazione di indicare il cliente. Mediamente le persone passano più tempo a guardare programmi di cucina che a fare la spesa e cucinare. Poi si presentano nel tuo locale a fare i critici gastronomici, a roteare un vino da quattro soldi nel calice prima di assaggiarlo con aria soddisfatta. Alcuni chef stellati sono fuffa (e durano poco), lo sai tu e lo sa chi fa il mio mestiere. Altri no. Poi stellato non vuol dire molto. Di ristoranti con una stella ce ne sono uno scatafascio. La presa per i fondelli scatta quando la narrazione oltrepassa la sostanza, quando il bisogno di eroi da parte del pubblico impone una macchina spettacolarizzante che continua a sfornarne. Ma questo vale per tutti gli ambiti.

6 – Si può fare il cuoco di mestiere e vivere felici (anche senza stella)?

Questa risposta è facile e te la racchiudo in una sillaba: .
Le stelle non sono direttamente proporzionali al tasso di felicità (la triste vicenda di Benoit Violier ne è un esempio). Credo che saper fare bene qualcosa, però, abbia il potere di farti star bene nel mondo. Perché alla fine tutti vogliamo la stessa cosa, una nicchia confortevole in cui trovare il nostro posto. E produrre qualcosa di buono con le mani ci rende persone migliori, al di là delle stelle.

"Carne Trita" di Leonardo Lucarelli, Garzanti Ed. | ©foto Sandra Longinotti

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