15 secondi.
Il tempo di oltrepassare l’ingresso e avvicinarvi al bancone del bar.
Voi non ve ne siete accorti ma in quel quarto di minuto lui sa già cosa potreste bere. Saluta in modo affabile e vi porge un bicchiere d’acqua fresca, non uno qualsiasi ma attraente per il colore e il gioco di curve delle fettine di cetriolo che galleggiano in trasparenza insieme al ghiaccio. Lo accettate con piacere come un appetizer che giunge inaspettato, bevete e vi rilassate, gustandovi quel delicato aroma di cetriolo che incredibilmente vi predispone, anche fisicamente, ad apprezzare quello che dovete ancora ordinare.
Intanto lui ha capito qualcosa in più di voi, guarda come vi muovete, ascolta il vostro tono di voce, osserva come siete vestiti. Ha capito se siete appena usciti dall’ufficio o se prima siete passati da casa a cambiarvi, sta facendosi un’idea di chi è con voi o immagina chi state aspettando, tutte informazioni che cambieranno la vostra scelta. Siete sempre voi, ma è il vostro mood a determinare il cocktail che avrete voglia di bere, e se voi non sapete ancora quale sia, lui ha già deciso cosa proporvi (e non si è affidato al caso).
“Lui” è Colin Field, head barman al Bar Hemingway del Ritz Paris: “sono inglese e vivo in Francia da 32 anni, i miei due figli sono nati lì e i miei amici più cari sono francesi. Tempo fa ero all’aeroporto Charles De Gaulle che non conosco bene, e mentre mi chiedevo dove fosse il check-in dell’Air France mi si avvicina una hostess. Mi aspetto che mi approcci con un “Bonjour Monsieur, puis-je vous aider?” e invece prima che io dica una parola mi chiede “Hello sir, can I help you?”. Da qualche parte in me c’è scritto che sono inglese. C’è qualcosa scritto in ognuno di noi, ed è quello che mi aiuta a preparare i cocktail giusti“.
Per farlo, come dice Colin, bisogna capire poche regole. Ve le riporto nella piacevole chiacchierata fatta a Il Pellicano, spiacente solo che non possiate sentire i suoi toni di voce, le pause, le enfasi e i sussurri che hanno modulato il racconto rendendolo spesso estremamente divertente. Col suo sottile humour inglese Colin ci ha trasmesso concetti fondamentali ed estremamente seri, tenendo alta l’attenzione. Se siete un bartender fatene buon uso, se non lo siete non entrerete più in un bar con l’inconsapevolezza di prima.
La prima regola è che siamo tutti soggetti a una programmazione inconscia. [preparatevi a riconoscervi a ogni step!]
Inizia a 14-15 anni, la sera in cui i genitori escono lasciandoti a casa da solo, pensando che tu sia abbastanza responsabile da non aver più bisogno della baby sitter. Appena se ne vanno decidi di uscire anche tu, probabilmente fumando una sigaretta, ed entri in quel baretto che conosci dove ordini un Grand Marnier o un liquore al cioccolato, o provi un Cointreau. Questo succede fino a 16, 17, massimo diciott’anni circa, l’età in cui non ci interessano whisky, cognac e gin, vogliamo bere solo liquori molto, molto dolci.
Poi, verso i 17, 18 anni è il momento di cocktail dolci come Caipirinha e Mojito, l’equivalente dei Black Russian e Alexander di 20-30 anni fa.
Arrivati a 21-22 anni iniziamo a bere cocktail con un terzo di liquore. Un giorno, mentre sei in vacanza in Spagna con la tua famiglia, papà ti chiede se desideri un cocktail e tu rispondi “oh si, ne vorrei uno grande!” e ti arriva una Piña Colada con tanto di ombrellino e scimmietta. Stai iniziando ad avvicinarti a cocktail con gin o vodka o un po’ di Cointreau, sullo stile del Margarita.
Lo step successivo, a 25 anni, è ai pranzi di lavoro coi clienti. Qualcuno dice “scegli tu il vino” e tu dici “ok, desidero un vino rosso” o “mi piacerebbe un vino bianco” e pensi “oddio, dove sono gli Chateaux? in Borgogna o in Bordeaux?” e ti chiedi “quali sono i vitigni dell’area del Bordeaux?” è in quel momento che ti rendi conto di quanto sia importante saperlo per i tuoi rapporti sociali.
Così dai 25 ai 30 anni cerchi di fare il maggior numero di esperienze, inizi a comprarti una bottiglia di Borgogna e la porti a casa per berla a cena, poi fai lo stesso coi Bordeaux, quindi ti chiedi quale sia la differenza fra Sherry e Porto, fra Armagnac e Cognac…
A trent’anni, a seconda del tuo lavoro e dallo stress che ti dà, arrivi al Martini Dry. A qualcuno capita a 40, ad altri più tardi, ma arrivi al cocktail più puro e pulito: il Martini Dry.
Quando poi hai 70 anni e sei diventato nonno o nonna, chiedi “un calice di champagne”.
Seconda regola: cerco di capire l’età e interpreto l’abbigliamento di chi entra.
Se ad esempio un gentleman di 35 anni arriva in hotel alle sei e mezza vestito da ufficio per bere un cocktail e poi andarsi a cambiare, ordina un Martini Dry. Cambiamo scena: la stessa persona sale in camera, fa una doccia, si cambia e scende al bar. Non ordinerà più un Martini Dry perché lo stress se n’è andato, si è messo in jeans e t-shirt e chiederà un Mojito o un Gin Tonic.
In giro per il mondo vedo ovunque bartender che usano i dosatori, ho chiesto perché lo facciano e mi hanno risposto “perché voglio che i miei clienti abbiano sempre lo stesso identico cocktail, che sia io a farlo o qualcun’altro”. Capisco, ma per me la nostra professione è altro, è Haute Couture: “su misura”. Se una persona mi chiede un Margarita alle sette lo preparo con 5/10 tequila, 3/10 Cointreau e 2/10 di succo di lime, se la stessa persona vuole berlo dopo cena lo faccio con 8/10 tequila, una o due gocce di succo di lime e Cointreau, la persona è sempre la stessa ma a quell’ora lo gradirà di più fatto così, di come glielo avrei preparato prima di cena.
La terza regola è molto provocatoria: siamo quello che beviamo.
Direte subito “non io”, eppure è così.
In Francia, ad esempio, Coca e Whisky è considerato il drink più proletario che esista. Nessuno lo berrebbe in pubblico. Metti che qualcuno voglia ordinarlo, entri al Plaza Hotel o al Ritz o a Il Pellicano, si avvicini a Federico (Morosi, il bartender de Il Pellicano) e gli dica sottovoce “Coca e whisky”: al suo “buonasera, cosa posso prepararle da bere?” risponderà immediatamente con “un Manhattan, grazie” bello chiaro, perché cerca di dire qualcosa di sé.
Chi cerca di dire “sono un uomo d’azione, riflessivo, ho fatto le scuole migliori, amo le auto sportive, i fuoribordo, viaggio per il mondo, sono a mio agio con qualsiasi abbigliamento” arriva al bar e ordina “Martini Dry, shakerato” e io penso “Oh my God, è James Bond!”.
Quarta regola: il nome del cocktail è importantissimo.
Devo chiedermi per chi ho creato quel cocktail e come a quella persona piacerebbe che si chiamasse. Se è per un gruppo di ragazze che hanno appena passato l’esame di maturità e ci metto vodka, succo di pompelmo e una goccia di liquore alla fragola e lo chiamo Bazooka, non funzionerà. E se creo un cocktail per un gruppo di quarantenni con Bourbon, Angostura, uno spruzzo di Manzanilla e ciliegina, e lo chiamo Butterfly (farfalla) nessuno di loro lo vorrà.
Se l’ho pensato per uomini d’affari dai gusti epicurei dovrò chiamarlo Magnum 46 (il nome di un pregiato sigaro cubano), mentre per proporlo a una donna il nome giusto sarà Stiletto (tacco a spillo): è sia femminile che pericoloso, un paradosso che piace a molti. Uno dei cocktail che serviamo al Bar Hemingway si chiama Miss Bond e ha molto successo tra le signore anche per il piacere intrinseco di pronunciarne il nome quando ordinano:”posso avere un Miss Bond?”.
Nel 1994 al Bar Hemingway Colin Field creò un cocktail per il businessman francese Jean-Louis Constanza, che assaggiandolo esclamò “Serendipity”, la parola inventata da Walpole per descrivere l’illuminazione prodotta da una scoperta non ricercata e non attesa. Per anni Colin è stato indeciso se gli piacesse di più scriverla con la y o la i finale, e alla fine ha scelto Serendipiti seguendo le sue sensazioni. Come sempre.
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©Foto mie e de Il Pellicano
per chi vuole approfondire:
Bar Hemingway del Ritz Paris
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